Un incontro (tanto) atteso – Guido Harari

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29 dicembre 2011.

Era da un po’ che lo rincorrevo. Come un metallo attratto da un magnete, sapevo che prima o poi ci saremo inesorabilmente incontrati. Il tutto accade quando un anno sta per finire e il suo compleanno è trascorso da appena un giorno. “E’ un eterno presente…” dice rispondendomi sul trascorrere dell’esistenza. “E’ una storia in continua evoluzione” mi verrebbe da rispondergli ripercorrendo il suo cammino professionale.

Fotografia e musica sono gli ingredienti del suo lavoro. Parti integranti della sua persona forse è più corretto dire. Approfittandone dell’informalità di quei giorni di festa, gli chiedo quale potrebbe essere un ritratto fotografico che ben lo rappresenti e lui, Guido Harari, mi risponde così: “Un tempo, quand’ero soprattutto fotografo, mi sentivo un “dilettante ispirato”. Oggi, dopo avere realizzato, libri, mostre, e aver aperto la mia galleria fotografica, Wall Of Sound, credo di portare avanti a più livelli e con strumenti diversi un’opera di divulgazione non solo sull’immagine della musica, ma sulla musica stessa e sulla realtà di cui è, o è stata, espressione”.

E’ un uomo che non solo ben sa cosa significhi il termine passioni, ma anche ha capito l’importanza di alimentarsi di esse – “…vuol dire tenere sempre accesa la propria scintilla interiore. È qualcosa di molto intimo, impresso da sempre nel proprio Dna. Quando il mondo intorno muore, si può sempre riconnettersi con la propria scintilla interiore per guardare avanti e “credere”. Non ci sono alternative”.

Guido Harari è colui che ha fatto talmente tante cose da poter essere soddisfatto di aver realizzato così tanti sogni, ma che ugualmente parlando di cosa ha ancora rinchiuso nel cassetto, risponde che per quello avrebbe bisogno di una macchina del tempo e di un’altra vita a disposizione.

Quando parla del suo lavoro sono le emozioni ad emergere dalle parole – “Mi emozionano il contatto con l’altro, le potenzialità di approfondimento, di conoscenza. Per un timido cronico come me, il lavoro di fotografo obbliga a saltare tutta una serie di impacci e ad esporti per quello che sei. Non è ammessa finzione. Dunque il mio è un lavoro veramente auto terapeutico e, come tale, irrinunciabile”.

Ma è sugli incontri che irrompono gli elementi distintivi che hanno caratterizzato la sua vita. Come quando mi racconta di come sia avvenuto il suo incontro con la fotografia – “Ho amato la fotografia fin da piccolo, osservando mio padre (che non era certo un professionista) fissare con la sua macchina fotografica i momenti salienti che scandivano la vita della nostra famiglia. Ho imparato ad apprezzare di più le piccole e grandi sorprese della vita proprio per la possibilità di fissarle su pellicola. Questa passione si è presto intrecciata con quella per la musica e ad un certo punto, prima ancora che compissi vent’anni, ha prodotto quello che è diventato il mio ‘lavoro’ ”.

Già la musica, un altro incontro incantevole, come lui stesso mi racconta: “Ho scoperto la magia della musica da bambino, infilando 45 giri nel mangiadischi dell’auto di alcuni amici di famiglia. Una specie di primitivo car stereo. Quando sono arrivati i Beatles, compravo già dischi con la mia paghetta, e non c’è voluto molto per capire che quella sarebbe stata la passione di una vita intera. Ho cominciato a ritagliare giornali, collezionare dischi e memorabilia e, più tardi, a fotografare e a scrivere”.

Guido Harari (sulla dx) con Franz Di Cioccio

Ma la vita di Guido Harari è stata forgiata anche da un altro tipo d’incontri. Quegli incontri che ti possono cambiare la vita – “La mia vita è cambiata quando per la prima volta ho sentito Elvis Presley in un juke-box durante una vacanza in montagna. Avevo otto anni. E poi quando il mio sguardo si è posato sulle fotografie di Jim Marshall, di Jean-Pierre Leloir, di Giuseppe Pino, di Annie Leibovitz. Avevo diciotto anni. Ogni incontro mi ha segnato, confermandomi nel percorso intrapreso”.

Infine arriviamo a quell’incontro che forse ha dato quell’accelerazione finale affinché mi mettessi in contatto con lui: Giorgio Gaber. “Ho apprezzato Gaber fin dai primi dischi “dei Navigli”, ma l’ho incontrato tardi, grazie a Enzo Jannacci, quando insieme riformarono il loro adrenalinico duo, ribattezzandolo Ja.Ga. Bros. Come se non più di De André, Gaber è stato la coscienza di più di una generazione. Impossibile non farsi contagiare e travolgere dall’irruenza delle sue performance, dalla corrosività delle argomentazioni, dalle instancabili provocazioni. Gaber resta a tutt’oggi, insieme a Pasolini, un esempio di serietà, di coerenza, di infaticabile ricerca. Colpiva di lui la dialettica, la sua smania di confrontarsi col pubblico in estenuanti dibattiti, il suo rimettere tutto in discussione – valori, idee, rituali. Ascoltare Gaber significava riaprire piaghe dolorose e gettare lo sguardo nell’abisso delle proprie contraddizioni. Dopo di lui, nessuno, purtroppo”.

Un anno fa proprio Guido, aveva pubblicato un meraviglioso libro fotografico su Gaber dal titolo L’illogica utopia. – “Era tempo che si restituisse la parola a Gaber a quasi dieci anni dalla sua scomparsa. Per colmare un vuoto troppo ingombrante, per riascoltare la voce dell’intelligenza, per rilanciare nuovi quesiti in un’epoca di finte certezze e di sgradevolissima cosmesi. Un libro come L’illogica utopia ha significato per me anche il lusso di poter approfondire il percorso e la poetica di Gaber (senza dimenticare l’apporto fondamentale del suo partner Sandro Luporini) attraverso i suoi appunti, le sue interviste e una messe di materiali messi generosamente a disposizione dagli amici della Fondazione Giorgio Gaber. Di questo non potrò mai ringraziarli abbastanza”.

Oggi un suo nuovo libro Quando parla Gaber. – “… doveva intitolarsi, ben più significativamente, Io non mi sento italiano. È nato dall’esigenza di uscire dall’autobiografismo dell’Illogica utopia per zoomare sugli anni del Teatro Canzone e dell’impegno civile. Di fatto il libro riprende una serie di materiali contenuti nell’Illogica utopia con l’aggiunta di alcuni inediti che si rendevano indispensabili in questa nuova veste. È un piccolo libro Zen da tenere sul comodino o in tasca, pronto in qualunque momento a regalare stimoli e, soprattutto, conforto”.

Prima di concludere questa nostra chiacchierata gli chiedo se secondo lui, nell’ambito artistico, esiste oggi un nuovo Signor G e lui senza esitare mi risponde: “Non potrà mai esserci un nuovo Signor G, come non potrà mai esserci un nuovo De André. La storia avanza e richiede nuovi testimoni, persino nuovi linguaggi. Siamo qui ad attendere chi saprà raccontare questi tempi bui con parole nuove. È già molto che, in questa attesa che si fa sempre più lunga e preoccupante, artisti con una visione come Gaber e De André possano aiutarci a decifrarli e a indovinarne gli sviluppi futuri”.

Finisce così questo nostro primo incontro. Ma sono sicuro che ora che ci siamo conosciuti, ci saranno altre occasioni per parlare, per condividere oppure semplicemente per solo sognare.

A presto Guido.

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